Quel bianco era arrivato a Milano nel 1954, a dodici anni, con una famiglia di emigranti e le valigie di cartone. Vivendo un’adolescenza da escluso si era innamorato dei neri e della loro musica, al punto da decidere, a ventisei anni, di andare a vivere in Africa. Non era in cerca di una nuova patria, bensì semmai di un posto in cui poter essere ancor più interamente, completamente straniero.
Martedì 17 gennaio 2017, in occasione della giornata per il dialogo interreligioso ebraico cristiano, nella Sinagoga di Milano ho ascoltato Rav Arbib dire quanto segue:
La parola shalòm in ebraico deriva dalla radice shalèm che vuol dire integro, completo. Si può pensare che integro significhi “Io sono completo e integro e gli altri devono adattarsi a me”. È l’idea che è alla base di ogni fondamentalismo. Ma shalèm può voler dire anche l’esatto contrario. Può significare che si aspira a un’integrità avendo la coscienza di non essere integri, di non esser completi.Come faceva quel bianco a stare in mezzo ai neri senza avere paura? L’ho sempre saputo, perché l’ho appreso osservandolo, ma senza mai saperlo spiegare agli altri. Dopo quaranta anni credo di aver trovato le parole per dirlo, proprio in questa aspirazione a una integrità. Senza di essa non si desidera incontrare chi è diverso, al contrario si tende a frequentare solo chi ci somiglia, si vive in un ghetto.

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